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Backbone, quando la malinconia smorza il tono noir di una storia intricata6 minuti lettura

Backbone

C’è un senso di malinconia dentro Backbone. Lo si percepisce dagli odori che trafiggono le narici di Howard Lotor, detective fin troppo sbadato ma con un raffinato senso di ragno. Lo si percepisce dall’ambiente, dai pigmenti che colorano gli edifici e la pelle degli individui presenti. Lo si percepisce dai dialoghi, linee di pensiero e scritti che si chiudono sempre con un piccolo sentore di non detto, come se ci fosse con tutti un passato misterioso, forse un rimpianto.

C’è un’aria di mistero dentro Backbone. Lo si percepisce dalla distopica Granville, città di santi e di porci, affascinante e intrisa di identità. Lo si percepisce dal guscio esterno che riveste Howard, dal tono brizzolato che caratterizza il nostro procione, dal delizioso modo di porsi che quest’ultimo ha. Lo si percepisce dalla abitazione in cui Howard vive, casa ricca di silenzi e vuota di emozioni, leggermente spoglia e poco utilizzata.

C’è tanta corruzione e depravazione in Granville, città ricca di scalatori sociali e poveracci, di mascalzoni e buoni di cuore. C’è il The Bite, club e luogo di culto della città, circolo dilettevole del vizio e luogo nel quale ogni tentazione non si fa attendere e del quale tratteremo più avanti.

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Backbone è un’avventura ma il protagonista non è un avventuriero.

Howard Lotor non veste le eroiche sembianze di Joel di The Last of Us, e nemmeno il mondo in cui si muove assume i colori e le caratteristiche di un mondo post-apocalittico. Eppure, la vicinanza con il nostro procione ci permette di immedesimarci in esso, di trasporre la sua vita nella nostra o viceversa. Come ogni avventura narrativa, la tipicità dei dialoghi confina il procedere nella trama, limitando e/o arricchendo il nostro operato. Operato, si. Perché abbiamo una missione in Backbone, sia come videogiocatore sia come Howard Lotor.
In veste di maneggiatori del joystick, saremo catapultati nelle scelte che il titolo ci mette davanti, destreggiandoci tra linee di dialogo molto chiare ed in antitesi tra di loro. Avremo il piacere di toccare con lo sguardo una splendida cittadina ricca di palazzi dalle mura zeppe di poster e luci accese, una diversa caratterizzazione della popolazione ed un Howard che, invero, sembra non mutare mai durante il percorso.
In qualità di Howard Lotor, dovremo portare a termine una missione. Siamo pur sempre un detective, siamo necessariamente alla ricerca della soluzione di un intrigo e pertanto non potremo esimerci dalla via maestra. Eppure si percepisce la il bisogno del nostro procione di evadere ogni tanto tra le vie della città, di percepire sensazioni diverse rispetto alle spine su cui cammina costantemente. Quanto avrei voluto in certi momenti che il mondo, all’improvviso, si fosse trasformato in tridimensionale, abbandonando quella leggera secchezza intrisa nel 2D (o 2,5D), permettendo(ci) di interagire con personaggi esteticamente bizzarri o con elementi incontrati durante il percorso. Ma tant’è.

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Il punto di svolta è indubbiamente l’ingresso di Howard nel The Bite. E già il nome, tradotto ne “il morso”, permette di inquadrare superficialmente l’ambiente e l’atmosfera che si respira all’interno del club. Il The Bite è luogo ambiguo, ricco di eterogeneità individuali, frequentato da loschi individui al bancone del bar e da finti angioletti pronti a raggirare ogni fesso.
Howard è chiaramente a disagio, sotto la luce dei riflettori dal momento del suo ingresso tortuoso. Sebbene fosse a conoscenza della cattive voci che rivestivano il The Bite, le scoperte acquisite all’interno hanno finito per segnarlo, fisicamente e psicologicamente. Ed in questo attimo che ho percepito in Howard Lotor un primordiale senso di resa, quasi a volersi spogliare delle vesti da detective e liberarsi da una sorta di malocchio che lo accompagna da tempo. Immagino quali siano stati i pensieri di Howard, “questo mestiere non mi ha arricchito, perché dovrebbe immergermi in un mare di pericoli così profondo?”.
Ma poi riflette. Howard Lotor non è mai stato il benvenuto il alcun locale della città. Ogni commerciante, ogni venditore alla vista di un detective non appare a proprio agio. Per non parlare dei cittadini, fanatici abitanti di una città distopica della quale hanno incamerato tutti i pregi ed i difetti. E quindi? Perché non continuare? Cosa dovrebbe fare altrimenti Howard? Rinchiudersi in quattro mura e sentire il rumore dei propri rimorsi? No, perché mai. Howard lotta e continua.

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Lotta. Per dimostrare che ogni re può perdere il proprio diadema, in particolar modo quando l’apice è stato conquistato con strumenti di corruzione e svariati altri delitti. Attenzione. Howard non aspira alla vetta dell’Olimpo e non punta alla notorietà. Howard è un solitario, un umile di cuore, uno che avrebbe anche accettato il ruolo di comprimario in questa nostra storia a discapito della figura dell’eroe. Ed anzi. Non mi sbaglio se penso che Howard, di frequente durante il percorso, tende a svilirsi o sottovalutarsi più del dovuto, quasi a voler giustificare un proprio fallimento rinvenendo le cause nella mancanza di qualcosa in sé. Lo si percepisce dagli attimi nei quali si ritrova a parlare con sé stesso, dai momenti vacui in cui la malinconia prende il sopravvento.

Proprio per questa peculiarità ho voluto incentrare la prima esperienza su Backbone, produzione videoludica che, a discapito di un gameplay che non rimarrà nella storia del medium, induce il giocatore/lettore a focalizzare l’attenzione su argomenti trascendentali che svariano dalla povertà (a volte assoluta) in cui vivono alcuni abitanti sino alla corruzione dilagante nel sistema. Backbone ci impone di vestire i panni di un normale, di quisque de populo che ha la fortuna di svolgere una professione intrigante ma che lo coinvolge esclusivamente quando altri fattori si inseriscono nel percorso. E la sensazione che si prova è quella di tuffarsi in una terra mai esplorata, nemmeno da Howard, e tentare di ricostruire un puzzle senza alcun aiuto particolare o superpotere.

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Cosa conservo alla fine di Backbone?

Me lo sono chiesto e me lo chiedo spesso. Da un lato, come qualsiasi titolo in 2,5D, Backbone mi fa provare sensazioni piacevoli in ogni istante nel quale tento di immaginare cosa ci sia dietro quel lungo muro continuo che ritrae l’ambientazione di gioco, cercando di spingere il tasto verso l’alto, sognando di vedere Howard imboccare una via verticale o aprire una porta o rompendo quella freddezza che il prodotto emana in certi momenti. Dall’altro, ho compreso che Backbone vuole essere così, si accontenta della leggera piacevolezza che rilascia e non mira a vette irraggiungibili, vuole narrarti una storia senza imporre alcuna chiave di lettura affinché sia lasciato nelle mani sapienti del videogiocatore raggiungere l’epilogo e provare quella soddisfazione che un titolo noir ci concede nel momento in cui il mistero viene risolto.

E se tu, giocatore, accetti di accogliere dentro di te Howard Lotor, con i suoi tratti, le sue debolezze che inevitabilmente si trascina con sé e che rischiano di contaminare la tua psiche, non te ne pentirai, fidati di me.

Backbone, quando la malinconia smorza il tono noir di una storia intricata6 minuti lettura ultima modifica: 2022-12-08T16:00:00+01:00 da Aornik

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